Due piccoli eventi, successi a qualche giorno di distanza l’uno dall’altro, mi hanno permesso di riflettere su un tema a cui sto dedicando un po’ di spazio: quanto il razzismo sia insito in ognuno di noi, nelle nostre azioni quotidiane e nell’uso inconsapevole di immagini e parole.
Due eventi differenti ma molto simili.
Dopo gli insulti razzisti rivolti al calciatore del Napoli ma di origini senegalesi Kalidou Koulibaly, un pizzaiolo napoletano, per dimostrare il proprio sostegno al giocatore e protestare contro i cori della tifoseria avversaria, si è dipinto la faccia di nero e ha lavorato un giorno intero così camuffato.
Di fronte a questo gesto apparentemente positivo e utile, si sono alzate alcune voci critiche, tra questequella della scrittrice italo-somala Igiaba Scego, che hannosottolineato come l’azione di truccarsi la faccia di nero per assomigliare a un nero siain realtà una pratica razzista. Tecnicamente chiamata Blackface, questo modo di farevenivautilizzato per rappresentare una parodia dell’uomo nero, esaltandole sue caratteristiche fisiche che diventavano parte integrante di un’ironia caricaturale basata su stereotipi razzisti (il nero buffo, tonto, servile…).
Un atto apparentemente innocuo soprattutto per chi non ne conosce la storia e ha scarsa consapevolezza riguardo la sua valenza simbolica (e in Italia purtroppo siamo molto ignoranti per ciò che riguarda la storia della cultura nera, dell’Africa e della colonizzazione, soprattutto quella italiana).Di fronte alle parole di Igiaba molti hanno commentato che in fondo il valore del gesto dipende dal contesto, che l’intenzione del pizzaiolo era diversa e che non c’era nulla di male in quella protesta, anzi eraun atto di sostegno.
Personalmente concordo con Igiaba infattimi chiedo: è possibile manifestare il proprio antirazzismo con elementi o azioni simboliche razziste o che si rifanno a pratiche razziste?
Per cercare una risposta e capire meglio ciò che voglio dire, riporto un altro esempio personale.
Qualche settimana fa ho scritto un lungo articolo sulle elezioni brasiliane (qui). Tra le parole che ho scelto per definire il trattamento riservato alle minoranze, ho utilizzato il terminedenigrare. Una parola corretta per definire l’atteggiamento di chi svaluta e svilisce l’altro mettendo in luce aspetti negativi. La parola che volevo propriousare.
Poco dopo la pubblicazione, però, ricevo un messaggio della mia editrice brasiliana che mi invitava a ricercarnel’etimologia per valutare l’opportunità del suo utilizzo. Inizialmente non comprendo, penso anzi a un’incomprensione dovuta alla traduzione.
Fidandomi di lei cerco però il significatosullaTreccani:
denigrare v. tr. [dal lat. denigrare, der. Di niger«nero»; propr. «annerire», poi fig.]. – Cercare con intenzione malevola di offuscare la reputazione di una persona o di sminuire il valore di una cosa, col parlarne male.
Aveva ragione la mia editrice. Anche in questo caso non è difficile comprendere il peso discriminatorio di questa parola che abbina l’essere nero a qualcosa di negativo: denigrare=annerire=sminuire il valore di qualcosa.
Ecco quindi che il razzismo inconsapevole, spesso anche sostenuto da buone intenzioni, entra nel nostro linguaggio e nell’uso che facciamo di immagini o simboli portandoci a perpetuare un modello linguistico e sociale escludente
, distorcendo l’immagine dell’altro, mostrandone solo gli stereotipi. L’ignoranza, in questo caso, non è una scusante ma una colpa, non tanto personale, quanto sociale e culturale. Non possiamo non sapere, dobbiamo conoscere, informarci e liberarci da certi stereotipi per non esserne schiavi.
Buon proposito per il nuovo anno: usare le parole con maggiore consapevolezza per costruire contesti di significato e lotta inclusivi e liberi da stereotipi razzisti.