Il risultato delle elezioni è come una partita a dadi. Si lancia un dado e, a seconda della faccia che esce, si vince o si perde. In Brasile, però, pare che le facce del dado che gli elettori hanno lanciato prevedessero un risultato piuttosto scontato. Come mai? Cos’ha contribuito alla vittoria di un ex militare fascista? Quali sono i contenuti delle sei facce del dado che una volta lanciato ha determinato questo scenario?
Il dado è tratto
Entro nella stanza dell’albergo di San Paolo in cui resterò ospitato solo una notte infilo la tessera con la quale ho aperto la porta nell’apposito aggeggio che accende tutte le luci. Insieme alle luci si accendono anche l’aria condizionata e la televisione, entrambe inutili. Sul teleschermo compare un pastore che, di fronte a un’immensa folla di adepti, sta chiedendo a un pover’uomo come sia riuscito a guarire da un terribile eczema che ne ricopriva buona parte del corpo. L’uomo, intimidito dall’irruenza del pastore, racconta di come si sia cosparso dell’acqua benedetta dal medesimo pastore, di come l’abbia bevuta e grazie a quelle azioni sia guarito. Appaio foto a testimonianza. Applausi scroscianti. Afferro il telecomando e cambio canale. Un’altro pastore sta gridando alcuni versi della bibbia. Cambio ancora. Una pastora sbraita dichiarando miracoloso un fazzoletto benedetto da lei stessa, compratelo vi salverà.
Ecco, penso che pochi elementi come questo possano raccontare e spiegare la situazione in cui si trova il Brasile contemporaneo. Già 15 anni fa, quando per la prima volta misi piede sul territorio brasiliano, si parlava del potere del movimento evangelico giunto poderoso dagli Stati Uniti. Un movimento religioso-politico-economico, basato sullo sfruttamento della povertà e dell’ingenuità di parte della popolazione. Pastori ricchi, ricchissimi, venditori di speranza a caro prezzo. Già al governo in città e stati, da gennaio gli evangelici faranno parte del nuovo governo che per 4 anni dovrà prendere decisioni che cadranno come pietre sul paese più grande dell’America latina. Se a questi affianchiamo gli estremisti cattolici come il MBL- Movimento Brasil Livre, in minore quantità ma pur sempre attivi nello scenario socio politico del paese, scopriamo la prima faccia del dado che, una volta lanciato, ha determinato la vittoria di una proposta politica fondata sulla menzogna, la circonvenzione e l’affermazione di posizioni razziste, fasciste e medioevali come è esplicitato anche dal motto nazista usato dal presidente: Brasile prima di tutto! Dio prima di tutti!

Non è un caso che la prossima ministra della donna, della famiglia e dei diritti umani sia una pastora evangelica che ha dichiarato, tra l’altro, che ora è il tempo della Chiesa di governare ed educare, che il posto della donna è in casa, che i gay sono contro natura. Uno stato un po’ meno laico, consegnato nelle mani di individui che fanno della religione il loro strumento di potere. Contraddittori, interessati più alla forma che alla sostanza. Al crocifisso come simbolo identitario e non come segno di amore incondizionato. Che preferiscono inventare false teorie piuttosto che alimentare una vera ricerca della verità. Basti pensare a come si creano paure quali la teoria gender o a progetti come Scuola senza partito volti a limitare la libertà dell’insegnante e il lavoro, necessario e prioritario della scuola, di educazione a una coscienza critica. Le destre brasiliane, per esempio, hanno creato la falsa notizia di un Kit gay che la sinistra avrebbe introdotto nelle scuole per far sì che i bambini diventassero gay. Non è mai esistito nessun kit gay, così come non esistono progetti di manipolazione dell’identità sessuale. Eppure molte persone preferiscono crederci, si sentono più sicure individuando in una minoranza un nemico da combattere.
Io sono maschilista
E a proposito di minoranze, durante alcuni degli incontri che ho avuto la possibilità di fare in queste ultime settimane passate in Brasile, con insegnanti, studenti universitari e pubblico in generale, abbiamo molte volte riflettuto sul significato delle parole stereotipo e di come queste determinino la società in cui viviamo che, a sua volta, determina chi siamo. Chi cresce in una società maschilista è maschilista. Io sono maschilista, tutti noi lo siamo. Anche le donne sono maschiliste. Magari non esercitiamo attivamente atti macisti – anche se succede con più frequenza di quello che pensiamo – ma la nostra formazione lo è. E se non riconosciamo questo dato, se non accettiamo di dover confrontarci continuamente con lo stereotipo dell’inferiorità della donna (rappresentato quotidianamente nei media, nel lavoro, nel linguaggio – nell’assenza, per esempio, di un lessico femminile per definire certi ruoli – nella differenza di genere intesa come disuguaglianza) allora contribuiamo alla sua sopravvivenza e ne rafforziamo l’effetto. Ecco la seconda faccia di questo dado immaginario. Il Brasile, come gran parte (forse tutte?) delle società contemporanee è una società razzista e classista, che afferma continuamente differenze di classe a partire da parametri economici, familiari, sociali, estetici e fisici. Se sei nero e con i capelli ricci, per esempio, hai molte più possibilità di essere fermato o che ti venga chiesto un documento, rispetto a un tuo collega coetaneo di pelle bianca. I discorsi razzisti del neo presidente, volti a denigrare tutte le minoranze, sono stati accolti tiepidamente perché, in fondo, ciò che veniva detto era condiviso da molti, più o meno consapevolmente. Perchè anche chi si dice non razzista, essendo cresciuto in un contesto sociale razzista, razzista lo è. Solo che non lo sa o non vuole riconoscerlo. E da questo le odierne conseguenze, soprattutto la paura dell’altro inteso come nemico che porta a una chiusura, alla costruzione di muri. Mi fa paura ciò che non conosco e questa è una reazione normale, naturale. Ma è ciò che faccio con questa paura che fa la differenza tra razzismo e inclusione.
“Ditatura militar jà”

Quando due anni fa vidi un gruppo di manifestanti alzare cartelli con scritte chiedendo il ritorno della dittatura che in Brasile è stata sconfitta solo nel 1985, non potevo credere che qualcuno credesse davvero che una dittatura militare potesse essere la soluzione ai problemi del paese. Eppure quello che quei manifestanti chiedevano, nel giro di due anni si sarebbe realizzato. No, in Brasile non sì è instaurata una dittatura militare, questo no. Però un governo militare sì. Non solo perché il neo presidente è un ex militare. Non solo perché un terzo dei ministri sono ex militari. È un governo militare perché il neo presidente ha difeso più volte l’utilità di un metodo governativo militare, della gestione della criminalità attraverso la libertà dell’esercito di usare le armi senza preoccuparsi delle conseguenze e della perdita di un po’ di libertà a favore di una maggiore sicurezza. Il ritorno massiccio dei militari è stato possibile soprattutto per una mancata riflessione culturale, sociale e giudiziale sulla dittatura. Il Brasile, dicono molti osservatori, non ha mai fatto veramente i conti con la sua storia dittatoriale, preferendo una specie di memoria selettiva che dimentica quello che è difficile da digerire, come appunto la dittatura, ritenendola un semplice evento storico. La stessa memoria selettiva che permette al neo presidente di dire che gli africani, giunti a milioni come schiavi, si sono offerti volontariamente per divenire vittime. Ecco un’altra faccia del dado, l’ignoranza storica, l’incapacità di leggere il passato divenendo quindi vittime di un pifferaio capace di portare le persone dove vuole. L’idea che i militari, poi, possano essere la soluzione alla violenza e alla mancanza di legalità più che l’educazione e la convivenza civile proposta dall’equità sociale, mette in luce la fragilità di una democrazia certamente ancora giovane ma per la quale bisognerebbe lottare ancora più strenuamente. Così non è, almeno, per chi interpreta il potere come dominio sul più fragile a servizio dell’élite.
Analfabetismo funzionale
Un élite che ha prodotto il golpe che nel 2016 ha destituito la presidenta democraticamente eletta, Dilma Rousseff, e che in questi anni ha lavorato per il ripristino di una società esclusiva. Lo strumento che ha maggiormente favorito la vittoria del neo presidente sono stati i social network, in particolare Whatsapp. Sono milioni i messaggi di fake news inviati tra il primo turno e il ballottaggio e che hanno determinato in buona parte la vittoria dei fascisti. Messaggi superficiali che raccontavano menzogne sul PT e su Haddad. Messaggi veloci, letti senza poi approfondirne il contenuto, senza desiderio di ricercare la verità. Perchè in fondo poco interessa la verità dei fatti, preferiamo fermarci alla condivisione di notizie che apparentemente ci tranquillizzano, confermano il nostro odio, il rifiuto di un pensiero critico. La quarta faccia di questo dado immaginario che, una volta tirato, ha determinato la vittoria della destra, è l’analfabetismo funzionale che ha reso la maggioranza della popolazione vittima predestinata della scaltrezza comunicativa di chi è interessato solo al proprio potere e ha alimentato l’egoismo di chi vive nella paura di perdere qualcosa nel confronto con l’altro. La presenza di carnefici capaci di modificare la realtà, non toglie la responsabilità delle vittime di accettare tale ruolo. E non è sufficiente lamentarsi per essere stati sedotti o truffati. L’ignoranza non è una scusante. Spesso è la via più facile per deresponsabilizzarsi. Uno stato di diritto democratico dovrebbe impegnarsi per mettere tutti nelle condizioni di avere gli strumenti necessari alla comprensione del contesto. Dovrebbe occuparsi di offrire a ognuno ciò di cui necessita perchè lo stato sociale sia equo. Ma pare che, oggi, l’obiettivo di molti governanti sia quello di gestire le masse attraverso un alto grado di ignoranza collettiva.
Che è un po’ come dire: Siamo ancora una democrazia giovane, certi passaggi storici dobbiamo sperimentarli. Così mi ha detto un amico, una persona istruita e intelligente, un artista che conosco da tempo. Ha espresso il pensiero di una parte della popolazione. C’è poco da fare, la storia deve passare anche per purghe come questa, eliminare un nemico storico e accettare un golpe, un governo di estrema destra e poi si vedrà. Come se non fosse possibile una riflessione sulle esperienze del passato o di altri contesti sociali nazionali. Il voto brasiliano, in fondo, non è stato tanto quello a favore del neo presidente, è stato principalmente l’espressione di un odio anti PT, per la delusione di ciò che negli ultimi 14 anni non è stato fatto. Siamo bravi a dar per scontato le conquiste, a ritenere che siano il minimo indispensabile. Mentre non perdoniamo il tanto o il poco a cui non viene dato risposta. Il PT ha modificato radicalmente la società e l’economia brasiliana, permettendo a milioni di poveri di uscire dallo stato desolante in cui erano ridotti. Il PT, però, ha fatto anche tanti errori, il più grande forse è stato quello di “accettare” le regole della corruzione per poter intervenire in maniera veloce e significativa sulla società. L’ultimo errore della sinistra brasiliana, poi, quinta faccia del nostro dado, è stato quello di non essere riuscito ad andare oltre Lula prima che Lula si rivelasse un fardello troppo pesante. I vertici, principalmente, non hanno avuto l’umiltà di riconoscere gli errori e di diventare quella proposta nuova di cui i brasiliani avevano bisogno.
E nulla c’entra il comunismo. La sinistra brasiliana è e sarà sempre più una sinistra contemporanea, schierata, capace di soluzioni innovative pronte a mettere il capitalismo a servizio dell’uomo.
Haddad, che è stato un grande ministro dell’educazione e un ottimo sindaco di San Paolo, purtroppo non è riuscito a ribaltare il pensiero comune sul PT. Nonostante questo segni di speranza ci sono. L’unica donna eletta al governo di uno stato brasiliano, per esempio, è del PT. Piccoli avamposti di resistenza.
La faccia bianca
C’è un’ultima faccia nel nostro dado. La sesta. È una faccia bianca, vuota, senza numero. Anzi un numero ci sarebbe: 40 milioni. È il numero di persone che si sono astenute dal voto, lo hanno annullato o lo hanno lasciato in bianco. Un terzo dei votanti, praticamente. Un pezzo di popolo senza rappresentanti o incapace di fare una scelta o disinteressato. In sintesi, una protesta o una delega. Sarà interessante capire come questa grande percentuale di persone reagirà alle scelte del governo. Se nel silenzio del proprio voto si sentirà meno colpevole per i diritti che verranno ridotti, se riterrà di non avere colpe per il retrocesso sociale e culturale al quale si assisterà, se approfittando dei privilegi della propria classe farà un po’ di beneficienza al fine di lavarsi la coscienza. O se, invece, si pentirà di non aver posto un freno a un cambiamento così negativo.
Bisbigli resistenti

Ricordo molte cose di queste giornate brasiliane tra Porto Alegre, San Paolo e Rio. Tanti volti, incontri, abbracci, profumi. Tra le esperienze che più mi hanno colpito, però, ci sono le chiacchiere con professori e studenti nei corridoi delle facoltà. Bisbigli resistenti, li ho definiti. Un confronto, spesso sconfortante, tra la realtà brasiliana e quella italiana in cui ci ritrovavamo a condividere le stesse preoccupazioni e una visione del futuro prossimo molto negativa, sotto voce, attenti a non essere scoperti da chi, in questo momento, sente di governare il potere e poterlo usare contro qualcuno e non a favore di tutti. I punti di contatto tra i due paesi sono davvero molti, più evidenti in uno e più sopiti nell’altro, ma drammaticamente gemelli.
C’è dell’altro però. L’idea che una resistenza sia possibile e che il nostro modo di resistere sarà quello di raccontare, di descrivere, di offrire la diversità dei punti di vista. Sarà una resistenza contro l’omologazione del pensiero, contro la riduzione dei diritti e contro una logica classista che ha il solo obiettivo di distinguere gli esseri umani in categorie. Una resistenza delle parole, dell’immaginazione e del futuro. Un vero e proprio bisbiglio che, partendo dal basso, si trasformerà in un canto di rivoluzione.
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