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“I bambini e la pedofilia, facciano sana autocritica. Quante volte provocano?”

Ho provato a riscrivere il volantino che don Corsi ha affisso sulla bacheca della sua parrocchia (prendendo spunto da un articolo pubblicato su Pontifex), sostituendo la donna con il bambino e il femminicidio con la pedofilia.

Secondo la logica avallata dal sito cattolico la responsabilità è prima di tutto degli altri. Su certi temi, io credo, non sono ammissibili deroghe perchè ciò equivarrebbe a giustificare comportamenti che, oltre a non avere giustificazioni di nessun tipo, sono il frutto di un sistema sociale e culturale che ancora considera qualcuno al servizio di qualcun’altro.

Farebbe un gran bene che i cattolici che non la pensano così, facessero sentire la loro voce.

 “I bambini e la pedofilia, facciano sana autocritica. Quante volte provocano?”

“L’analisi del fenomeno che i soliti tromboni di giornali e tv chiamano appunto pedofilia. Una stampa fanatica e deviata attribuisce all’uomo che non accetterebbe la propria devianza sessuale questa spinta alla violenza. Domandiamoci: Possibile che in un sol colpo gli uomini siano impazziti? Non lo crediamo. Il nodo sta nel fatto che i bambini sempre più spesso provocano, bisognosi di affetto, non sono autosufficienti e finiscono con esasperare il contatto fisico… Dunque se una relazione famigliare o di cura si trasforma in abuso (forma di violenza da condannare e punire con fermezza) spesso le responsabilità sono condivise.

Quante volte vediamo bambini e ragazzi circolare per strada con pantaloncini corti o magari senza costume in spiaggia? Quanti abbracci un bambino dispensa alla maestra o al suo educatore? Potrebbero farne a meno. Costoro provocano gli istinti peggiori e poi si arriva alla violenza o abuso sessuale (lo ribadiamo, roba da mascalzoni). Bambini, facciano un sano esame di coscienza: forse questo ce lo siamo cercati anche noi?”.

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nessun alibi

“In verità lui non voleva…”

“E’ stato solo un errore, un momento…”

“Non succederà più…”

“Beh in fondo con quella gonna…”

“Se non si rispettano i ruoli…”

“Il punto G, quello che ti dà l’orgasmo nei salotti dei talk show…”

Troppi alibi quando si parla di violenza sulle donne. Troppe scuse, troppe giustificazioni.

Troppi alibi, culturalmente parlando. Se un uomo si permette di fare violenza su una donna è perché ancora c’è una sottocultura che avalla ciò. Troppi padri che davanti ai figli usano parole o atteggiamenti di sottomissione verso le loro mogli, compagne; troppi ragazzi che immaginano la ragazza come una proprietà di cui servirsi; il riferimento sessuale usato con leggerezza e disprezzo;

troppi maschi che davanti a femmine (insegnanti, vigilesse, politiche, figlie…) si permettono di usare un linguaggio aggressivo, denigratorio, violento. Tutto questo crea un immenso un alibi culturale, come se si seminasse nel pensiero comune una piccola idea: verso una donna puoi permetterti… Siamo consapevoli che poi questa idea crescerà? E che diventerà un’azione? Un’azione, in fondo, giustificata. Perché se posso permettermi di pensarla, quell’azione, già la giustifico.

Nessun alibi, allora. Niente che possa giustificare un qualsivoglia atteggiamento di violenza. Dobbiamo ribellarci, tutti. A casa e a scuola, al supermercato o in ufficio, in coda o in piazza, al cinema o al parco. A partire dal piccolo ‘altrove’ in cui viviamo. Alzare la mano e denunciare ogni piccolo gesto, ogni parola, ogni sguardo, ogni silenzio, ogni ottusa scusa che possa costruire l’alibi che in futuro porterà ad agire un gesto di violenza contro una donna. Qualsiasi donna, in qualsiasi condizione, in qualsiasi ruolo, senza ma e senza se.

E come dicevo qualche tempo fa in un mio stato di facebook :

“Vorrei far sapere a tutte le donne che conosco che le stimo per ciò che sono, né perbene, né permale, diverse e libere. Che lavorate, che siete dolci, che siete stronze, che siete creative, che siete acide, che siete forti, che il vostro culo è bello ma non è la vostra fortuna, perché difficilmente vi va di culo, di solito dovete sudare il doppio per affermare le vostre capacità: c’è un’Italia migliore, la vostra.”

Nessun alibi, quindi.

E voi donne, così preziose e fragili, così pesanti e insopportabili, così leggere e volubili, così brillanti e forti, così tenere e commoventi, voi per prime non permettete a nessuna qualsivoglia forma di amore di costituire un alibi per la violenza. Nessuna forma di amore si può esprimere attraverso la violenza.

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guardarti negli occhi

Mi piacerebbe tanto guardarti negli occhi, per sapere davvero quello che stai sentendo, per essere spoglio davanti a te, indifeso ed entrambi liberi.

Mi servirebbe guardarti negli occhi mentre mi dici quello che pensi, che senti, che temi per non lasciare spazio al fraintendimento, al dubbio, alla confusione.

Mi basterebbe guardarti negli occhi e stare con te nel tuo silenzio.

Mi mancherebbe guardarti negli occhi perché mi interessa aver cura di te.

Mi aiuterebbe guardarti negli occhi perché solo insieme possiamo farcela.

Mi guarirebbe guadarti negli occhi, dalla paura, dalla solitudine, dall’incertezza, da un passato che strozza la mia fiducia.

Illustrazione by AttilioPalumbo

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siamo tutti deficienti ma…

Possiamo dirlo senza troppi timori, senza preoccuparci di fare brutta figura o abbassare la nostra autostima.

Siamo tutti deficienti.

Nel senso letterale del termine.

A tutti manca qualcosa.

A chi qualche grado nella vista, a chi la capacità di coniugare i verbi, a chi l’ironia o, al contrario, la serietà, a chi la capacità di cucinare oppure di fare i conti a mente. A qualcuno manca l’uso delle gambe oppure il pollice verde, a qualcuno l’ordine a qualcun altro la capacità di orientarsi in città.

Insomma, ognuno ha il proprio deficit.

Qualcuno però ne ha di più.

Siamo tutti deficienti ma qualcuno un po’ di più

No, non mi riferisco alle persone con disabilità ma a qualcun altro.

A chi, per esempio, parcheggia la propria auto in un posto per disabili poi, quando viene multato  taglia le gomme del malcapitato che l’ha denunciato. Ma è un po’ più deficiente anche quell’insegnante che pretende che il bambino con disabilità trascorra tutto il tempo scolastico fuori dalla classe oppure quel genitore che propone alla figlia con sindrome di Down, di modificare i tratti somatici dal chirurgo estetico oppure quella persona con disabilità che pretende diritti ma non vuole i doveri o, infine, quel politico che si riempie la bocca della parola diversamente abile poi, però, taglia, a causa della terribile e maledetta crisi, gli interventi a sostegno degli handicappati.

Insomma siamo tutti deficienti, però qualcuno lo è di più quando non accetta la propria deficienza e si comporta da… come posso dire… diversamente… no… ecco, quando si comporta da stronzo!

Perché in fondo, diciamocelo, il deficit non centra nulla, è una questione di diritti, civiltà ed educazione.

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il diritto ad emozionarmi

Ho seguito con interesse l’intervento di Saviano sulle diverse abilità, durante la trasmissione ‘Che tempo che fa’ di lunedì scorso. Ne ho parlato con amici e colleghi con disabilità. E con altrettanto interesse ho letto i commenti di Franco Bomprezzi, giornalista che stimo e di cui condivido ‘troppo’ spesso le osservazioni.

Anche in questo caso appoggio la sua riflessione circa l’uso del termine diversamente abile , dell’atteggiamento un po’ pietistico che sottintende tutto il discorso di Saviano e della necessità di parlare prima di tutto di diritti che di abilità diverse.

Però, c’è un però.

C’era qualcosa, del giusto discorso di Bomprezzi e delle reazioni altrettanto giuste di alcuni amici, che non mi bastava.

Poi ho pensato.

Ho pensato a quando, guardando le paralimpiadi, mi sono emozionato, per l’ennesima volta, di fronte a certi gesti atletici.

La necessità di riportare il discorso alle persone, liberandolo da un pietismo e da un sentimentalismo che accudisce ma non garantisce diritti fino in fondo, è sacrosanta.

Reclamo, però, il diritto ad emozionarmi.

Di fronte a un atleta non vedente che vince i 100 metri stile libero oppure a un altro atleta che sulla sua sedia a rotelle gioca una partita di ping-pong o di scherma nonostante la propria disabilità o davanti a Petrucciani che riempie l’aria di musica nonostante la sua disabilità.

Lo stesso diritto che reclamo quando, al concerto di Bruce Springsteen, mescolo le lacrime alla pioggia o quando mi perdo tra le parole di uno scrittore, tra le sfumature di un pittore o, quando, godo del sapore di un piatto ben cucinato.

Emozionarmi, non perché c’è un povero disabile che fa le cose come un normodotato ed è più bravo perché, poverino, ha più difficoltà da affrontare.

Emozionarmi, semplicemente, perché qualcuno svela che la normalità non esiste, esiste solo la particolarità, la capacità di confrontarsi ancora con i propri limiti e superarli. O almeno provarci.

Non per dimostrare di essere come gli altri, semplicemente per affermare di essere se stessi.

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